Galleria Semid'Arte

Stefano Pilato

Offendono, i Pesci di Stefano Pilato. Oltraggiano l’ordine naturale delle cose perché al contrario dei pesci del pesciaiolo – che sono fatti di materia viva ma si rivelano spesso fin troppo morti – i pesci di Stefano Pilato sono di materie morte composti eppure si manifestano vivi in modo affabulatorio e spiazzante, ingiurioso e candido, ironico e metaforico, vero.
Ti guardano placidi, forti della loro natura rigenerata, esistenza in vita che va oltre il declino (più o meno) naturale delle cose; fatti come sono della materia di cui sono fatti i sogni, che mostrano percorsi d’ignota chiarezza rimescolando con ordine misterioso i residui della mente, a saperli leggere.
C’è chiaramente una voragine cognitiva, un evidente gap fra l’inutile povero resto buttato nel mare magno della pattumiera e quell’oggetto di mare composto colorato compiuto che ora ammicca sulla parete.
È che i Pesci di Stefano Pilato sono la fragilissima passerella sospesa sull’abisso del nostro vivere, quella voragine di cui si diceva, appunto, quel non luogo in cui si manifesta la stoltezza dell’esistenza di ognuno di noi: noi incapaci di attribuire un residuo di valore agli oggetti e alle povere esauste cose belle e di pessimo gusto di cui amiamo circondarci e continuamente disfarci.
E perciò ci stupiamo di come, in quell’atto pietoso di ricomporre povere cose morte, il Demiurgo riesca a infondere vita, energia e senso ben più significativi e forti rispetto alla loro utilitaristica natura originale.
Negli ultimi anni l’opera di Stefano Pilato ha assunto una complessità compositiva che si può a ragione definire barocca.
Nell’armonia composita del pesce abissale come in quella semplice ed elegante del capodoglio ogni particolare, ogni piccolo o grande residuo scelto da Pilato è frutto di una ponderata selezione, di una meditazione che può essere durata mesi. In sé ogni elemento contiene già la spinta verso la seconda vita, ma solo Pilato sa quando è il momento giusto per farla nascere. Addìo brugole, ingranaggi, flaconi, pezzi di legno lavorati dal mare, tastiere di computer, rivetti, addìo carburatori di motorino, palette di bambini, caffettiere, cavatappi, addìo… Un freno è una pinna, un’appendiabiti una coda, una biglia è un occhio, un circuito stampato è il cuore pulsante della nuova creatura che abbiamo di fronte.
Dice Stefano:’Da venti anni raccolgo di tutto dovunque ma soprattutto legno trovato sulle spiagge dopo le mareggiate.Cerco con abnegazione e ironia, carico di esperienze grafico pittoriche, di dare vita ad opere che spesso raffigurano creature marine.
I miei lavori sono pieni di oggetti già vissuti che riacquistano la loro dignità persa dopo il suo utilizzo primario, cerco di esaltarne l’estetica nascosta valorizzandola nell’assemblaggio di un pesce abissale o di una balena azzurra.’
Forse i suoi fantasmagorici pesci che popoleranno gli oceani dell’anno 3000 potrebbero servire per insegnarci che dobbiamo abbandonare l’usa e getta e riapprendere il concetto che tutto serve se lo sai riutilizzare.
Intanto però voi accontentatevi di ammirare la “Cabeza Negra” con la sua grande mascella. Un pesce che ci insegna a rispettare il dono più grande che la natura ci ha dato. Quel brodo primordiale da cui veniamo tutti: il mare. In caso contrario è quasi scontato che quella mascella finirà con il chiudersi sulle nostre teste.

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